Nel cuore delle colline garganiche, la tranquilla cittadina di San Marco in Lamis ospita dal 1961 un forno in cui tradizione e avanguardia hanno saputo creare una sinergia perfetta, reinventando prodotti della tipicità locale senza rinunciare all’autenticità dei sapori di una volta.

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Zia Maria, zia Tanella e mamma Lina, 256 anni in tre, sono le regine del pane del Gargano. Una storia italiana

Un racconto di lavoro e passione: le sorelle dal 1961 ogni mattina sfornano pane, biscotti e dolci lievitati e lavorano tutto a mano. Il loro forno, nel piccolo centro di San Marco in Lamis, è amato dai clienti della zona, ma anche dagli chef di tutta Italia

Di Eleonora Cozzella da Repubblica.it

Lina, Maria e Tanella Franco insieme hanno 256 anni e hanno fondato la loro attività nel 1961. Sono tre sorelle, donne minutissime con lo spirito di ragazzine energiche. Nel forno di proprietà della famiglia, a San Marco in Lamis (Fg) seguono ancora tutte le lavorazioni quasi completamente a mano.

Le tre sorelle dormono insieme e da quando si svegliano al mattino non si fermano un attimo. Ognuna ha il suo spazio nel loro laboratorio: Tanella cura le patate, che sceglie, sbuccia e cuoce personalmente per le speciali focacce, e la preparazione dei canditi o, se in stagione, degli agrumi e dei pomodori. Maria è la regina delle uova: in periodo di feste comandate per esempio si diverte moltissimo perché ne deve rompere e separare fino a tremila al giorno e le piace un sacco. Lina, che è biologa e ha insegnato scienze, presiede gli impasti di tutti i lievitati.

Sfornano pane, biscotti e dolci lievitati. Il nipote Antonio Cera, sperimentatore di farine e fermentazioni, ha deciso qualche anno fa di lavorare con loro e adesso ha preso in mano le redini dell’organizzazione. Con i loro pani “sartoriali” servono alcuni dei migliori ristoranti d’Italia, le loro “dita” (grissini con l’impasto dei taralli) impazzano sul mercato americano.

Ed è proprio il pane il filo conduttore di tutta la storia della famiglia, che ha per voce narrante Antonio: “Zia Maria compirà 92 anni tra un mese, zia Tanella ne ha 88 e mamma Lina, che è una biologa ex insegnante di scienze prestata alla panificazione, 76 e tutta la loro vita ruota intorno ai campi di grano, al mulino, al forno”.

Agricoltori da oltre due secoli, e fino a qualche decennio fa anche allevatori, l’organizzazione era quella di una tipica famiglia matriarcale molto unita, in cui tutti, dai bisnonni ai nipoti, hanno i loro compiti in questa terra magica, il Gargano generoso di grano duro sul Tavoliere e nell’entroterra di grano tenero e di mais, protagonista della “semuledda”, una polenta cucinata con gli scarti del maiale, i cicoli, il finocchietto selvatico, le patate, insomma: quello che dava l’economia di una famiglia, perché ogni nucleo da queste parti allevava un paio di maiali, aveva un orticello e raccoglieva erbe selvatiche.

“Noi avevamo un allevamento di maiali sul Gargano – racconta Antonio – e in pianura, c’erano le funnade, piccole goline con castagni, querce, dove mio nonno Michele li portava a mangiare ghiande e castagne. Gli ultimi tre mesi li nutriva solo a mais. E zia Tanella con nonno si occupava della produzione dei salumi. Di una bontà assoluta”.

Sono esperienze che oggi pochi giovani possono vantare, ma che per Cera, classe 1979 e una laurea alla Bocconi voluta per tornare a occuparsi del business di famiglia, sono l’unica realtà che abbia un vero senso: “La prima volta che ho visto un ipermercato è stata nel 1998 – racconta – ed è stata una sensazione di sconcerto. Non capivo perché se ne sentisse il bisogno”. Si tratta di un’ode all’economia familiare circolare totale, dove tutto viene recuperato: per esempio, ci sono croste del pane secco? Diventano cibo per le galline. La farina di grano tenero diventa pane, pasta fresca, biscotti per l’alimentazione di tutti i giorni, la frutta estiva conserva per l’inverno. Nulla si spreca.

In questa economia, ognuno aveva un compito: nonno Michele curava l’orto-giardino, “ed era un precursore del culto della bellezza dell’orto e dell’eleganza personale. Lo chiamavano ‘il piccolo medico’ per il suo stile, un contadino curato come un dottore”. L’insegnamento di Michele? “Non è importante che cosa offri ma il modo in cui lo fai” ed era una lezione di marketing ante litteram. “Lui raccoglieva le zucchine – ricorda Antonio – e le sistemava una a una in una foglia nelle cassette. E le zie non capivano perché perdesse così tanto tempo, ma poi sul mercato erano le più ambite”.

Tutti seguivano le sue idee: “Come vu’ tu, facimm” ripeteva nonna Caterina. E così il grano, sia duro che tenero, si vendeva bene, i maiali davano ottimi salumi, la vigna buon vino. Nel frattempo, si arriva agli anni ’50 e la zona – con San Giovanni Rotondo a soli tre chilometri di distanza – diventa sempre più affollata di pellegrini che arrivano per Padre Pio.  

Ecco che Michele ebbe l’idea di creare un ristorante con i prodotti di casa, vino, formaggi, salumi e soprattutto ortaggi. Il sogno non si realizzò per intero. Nel 1961 aprirono un panificio per usare il grano di produzione, guidato da zia Maria, vera imprenditrice donna dell’ultimo cinquantennio del secolo scorso. Col tempo poi acquisirono anche il mulino, prima gestito da un vicino, nello stesso immobile. Si raccoglieva il grano, si moliva e si faceva il pane. “Il nostro era un forno sociale, è il forno dei sanmarchesi che ancora lo chiamano il forno di Maria (‘o furn d Maria’)”.

Producevano esclusivamente pane fino agli anni 80 in pagnotte da 8-10 e 12 chili. Poi sono nate le forme più piccole (si fa per dire): da 2-3-4-5-6-chili. Poi hanno cominciato a introdurre i biscotti, solo con le ricette della loro nonna: le pastarelle, biscotti da latte grandi quanto una mano, e ‘U tarallo ‘n cotto’, prodotto legato alle stagioni della mietitura, retaggio di quello che i proprietari offrivano ai mietitori durante il raccolto (a base di farina fresca, uova, strutto). Alcuni clienti andavano a fare la spesa al forno, ma per lo più erano loro a portare pane e biscotti nel contado. “Vigeva lo scambio e ancora adesso non è raro. Per lo più quando consegnavo il pane venivo ripagato con uova, formaggi, frutti” ricorda Antonio affascinato da questa economia.

“Fin da bambino volevo lavorare con loro. Ma prima dovevo capire in che modo. Così parto per l’università, poi vado in Inghilterra per imparare la lingua. A un passo da entrare a lavorare in banca dico no. Sarei rimasto al forno”.
E qui ancora una volta la saggezza delle donne di casa. Zia Tanella infatti lo avvertì: “Puoi fare tutto quello che hai in mente tu, ma ricorda che devi curare l’orto perché il nostro successo è basato sulla qualità e devi continuare a dare il prodotto a cui li abbiamo abituati,”.

Il cambiamento deve essere ben ponderato, insomma. Nel 2008 Antonio entra con entusiasmo a lavorare nell’azienda. Tutti i giorni va in giro per le campagne a consegnare il pane e a parlare con i contadini, per capire come la pensavano, per avere un dialogo per avere il polso della situazione. Il forno avvia una ristrutturazione, a partire dal nome, che prima non c’era. “È buffo pensare che fino al 2010 il forno non aveva nemmeno l’insegna. Anche perché non aveva un nome. Era semplicemente ed è ancora per tutti i paesani il forno di Maria”.

Iniziano a cercare un nome e zia Maria era stupita: “Perché abbiamo bisogno di un nome? In fondo, Il vino buono si vende senza la frasca”.
Ma alla fine lo trovano: si chiamerà Forno Sammarco, “dove la S stilizzata – spiega Antonio – rappresenta la forma della Puglia che si protende all’esterno. Sognavo un pane sartoriale, un pane su misura e sognavo di arrivare col nostro prodotto nei posti migliori del mondo.  Tanto sognare non costa nulla”.

Così per far conoscere la bontà delle creazioni delle zie, organizzò un evento a Milano, una mostra fotografica con degustazione per raccontare “L’anima dolce del Gargano nel cuore di Milano”. I gourmet all’ombra della Madonnina scoprono la fragranza del pane di Puglia, i taralli ‘ncotti con ricette secolari, e il panterrone, il primo panettone di grano arso e rape candite. È il 2011 e la voce inizia a spargersi tra gli chef milanesi. La prima è Viviana Varese, entusiasta di questo pane contadino curato con competenza. Inizia così un periodo di collaborazione con alcuni dei migliori ristoranti d’Italia. Tra le collaborazioni, anche quella con Moreno Cedroni che usa il pane creato dal Sammarco su misura per il Clandestino, poi il Pascià di Conversano, Borgo Egnazia dello chef Domingo Schingaro, Giuliano Bardassarre, Don Alfonso, Pietro Zito di Antichi Sapori, solo per citarne alcuni.

Antonio ovviamente mette mano anche ai conti. “Il problema – spiega – è che noi avevamo prezzi bassissimi rispetto alle materie prime impiegate e i metodi per trattarlo. Basta pensare che per i biscotti ‘mandorlini’, era zia Tanella a cogliere a mano le mandorle e a romperle col martello una a una, perché dice che è il modo migliore per valutarne maturazione, umidità e usarle al meglio nei prodotti. Ma al contempo erano prezzi superiori del 30-40 per cento al panorama regionale. Ci consideravano la gioielleria. Troppo cari per i nostri vicini e troppo poco remunerativi per le nostre spese. Ho avuto il coraggio di alzare i prezzi”.

Non si creda sia solo questione di soldi: “Alzare i prezzi vuol dire rivendicare il valore delle nostre materie prime, e del tempo e della cura che impieghiamo. Le dita (i grissini con l’impasto dei taralli) ora costano 23 euro al chilo, ma sono impastati, stesi e tagliati a mano. Hanno una doppia cottura e tra una e l’altra sono vaporizzati singolarmente a mano. Anche il tempo deve essere valorizzato. Zia Maria da sola taglia a mano ogni giorno un carrello da 50 kg di mandorlini: io l’ho fatto una sola volta e mi è venuta la tendinite. È difficile dare un valore a questo tempo, però è giusto farlo”.

Così, nelle linee di prodotto ecco quella “dalle origini” che vuole ricordare che ci sono ricette storiche di famiglia e con la cura di un tempo sono fatte ancora oggi. Altre linee sottolineano il concetto di manualità, più ancora di quello di artigianato (parola ormai a rischio fraintendimento). Come il pane chiamato f’orma. “Perché porta l’orma, l’impronta di chi lavora. Noi non abbiamo celle di lievitazione per il pane. Quindi non gestiamo noi i tempi, ma è il pane stesso, che va seguito. Ecco, quanto vale un minuto del lavoro mio e dei miei collaboratori che sono il mio futuro?”

Cera è celebre infatti oltre che per il pane anche per la formazione e insiste sempre sul concetto di tempo. “So che a livello industriale fanno il pane in 40 minuti. Cioè da quando inizia l’impasto, alla lievitazione alla cottura solo 40 minuti. La mia mente rifiuta di crederci. Per un normale pane fatto bene occorrono almeno 9 ore”.

Una volta lo sapevano tutti, adesso in tempi di pane da ipermercato sente il bisogno di ricordarlo. E sogna un ritorno all’economia virtuosa, quella famigliare circolare che lui sta cercando di allargare agli allevatori e agricoltori del territorio. La “famiglia allargata” fatta con allevatori come Michele Sabatino, che alleva maiali neri dauno, una razza autoctona, e seleziona capre garganiche, e la pecora gentile di puglia e fornisce carni. O come Bramante che nella sua masseria ha 120 mucche podoliche che vivono allo stato semibrado con quasi 3 ettari a disposizione per ciascuna. Qui si producono solo due chili al giorno di ricotta di podolica che non avrebbe mercato: troppo poca per entrare in commercio e troppa per il fabbisogno dell’allevatore, finisce nelle focacce Sammarco. Come tutte le scorze del pane che affettano finisce nel becchine delle galline. Un grande circolo virtuoso di territorio all’insegna della qualità e del risparmio di risorse.

Intanto Tanella, Maria e Lina non vedono l’ora di uscire a raccogliere il timo selvatico, l’origano, la camomilla, la malva, la salvia, che finiranno nelle loro pizze, focacce e pagnotte